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Esiodo

Lo scudo di Ercole

Apollo e Daphne

Edizione Acrobat

a cura di

Patrizio Sanasi

(patsa@tin.it).Esiodo Lo scudo di Ercole

2

O come, abbandonate le case e la terra paterna,

seguendo Anfitrïóne possente guerriero, la figlia

d'Elettrïóne venne, pastore di popoli, a Tebe.

Essa brillava su tutta la molle feminea stirpe,

di forma, di statura: fra quante mortali ai Celesti

diedero figlie, nessuna con lei contendeva di senno:

a lei dal capo giú, dalla chioma cerulëa bruna,

spirava un'aura, come da Cípride, l'aurëa Diva.

E tanto ella in cuor suo venerava lo sposo diletto,

quanto nessuna mai l'onorò delle tenere donne,

sebbene ucciso il padre le aveva, ché in pugna lo vinse,

ch'era adirato pei bovi. Fuggiasco dal suolo paterno,

a Tebe venne, e volse la prece ai Cadmèi valorosi.

E con la casta sposa quivi egli abitava, ma privo

del genïale amore: ché ascendere il letto d'Alcmèna

dai bei malleoli, gli era conteso, se pria non avesse

tratta vendetta dello sterminio dei prodi fratelli

della sua sposa, ed arse, col fuoco che tutto distrugge,

dei Telebòi, dei Tasi, prodissimi eroi, le borgate.

Tale il destino suo: ne furon gli Dei testimoni.

Ed ei, l'ira dei Numi temendo, a compir s'affrettava,

quanto poteva piú, la gran gesta prescritta da Giove.

Ed i Beoti con lui, bramosi di pugne e di zuffe,

usi a sferzare cavalli, terribili sotto i palvesi,

e i Locri, usi a combatter da presso, ed i prodi Focesi,

seguiano: era signore di questi il figliuolo d'Alcèo,

fiero dei popoli suoi. Ma degli uomini il padre e dei Numi

altro consiglio volgeva: volea generar contro il male,

pei Numi e pei mortali che cibano pane, uno schermo.

E dall'Olimpo balzò, macchinando nel cuore un inganno,

di notte, ché bramava l'amor della donna elegante.

A Tifaóne presto pervenne, ed ancora movendo,

giunse alla vetta piú alta del Ficio il saggissimo Giove.

E quivi stette, e volse la mente a un'impresa divina:

ché, nella stessa notte, d'Alcmena dall'agil caviglia

il letto ascese Giove, l'amò, sazïò la sua brama.

Ed anche Anfitrïóne, l'eroe condottiero di turbe,

compiuta la gran gesta, tornò quella sera al suo tetto.

Né tra i famigli andò, non andò fra i pastori nei campi,

ma pria della sua sposa nel talamo venne l'eroe:

tal desiderio ardeva nel cuore al pastore di genti.

Come allorquando un uomo sfuggito a un malanno s'allegra,

quando abbia un grave morbo fuggito, o una dura prigione,

Anfitrïóne cosí, compiuta la dura sua gesta,

alla sua casa giunse con cuore giocondo e felice.

E giacque con la casta consorte per tutta la notte,

le gioie d'Afrodite godendo, dell'aurëa Diva.

E da un Celeste amata la donna, e da un uomo perfetto,

nella settemplice Tebe die' a luce due gemini figli.

Ma l'uno uguale all'altro non eran, sebbene fratelli:

ché l'uno era da meno, di molto migliore era l'altro

figliuolo: Ercole esso era, gagliardo, terribile, invitto.

Questo la donna al figlio di Crono dai nuvoli negri

concetto aveva; ad Anfitrïóne signore di genti

Ificle: ben diversi rampolli: ché l'uno a un mortale,

e l'altro avea la donna concetto al Signor dei Celesti.

E questi Cigno uccise, di Marte il magnanimo figlio,

ché lo trovò nel bosco d'Apollo che lungi saetta,

lui con suo padre Marte, che mai non è sazio di guerre,

chiusi nell'armi, come barbagli di fiamma che arda,.Esiodo Lo scudo di Ercole

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ritti sul carro ambedue: scalpitavano i ratti corsieri,

l'unghie battevano, e intorno bruciava la polvere ad essi,

percossa sotto il carro massiccio ed il pie' dei cavalli.

Il ben costrutto cocchio squillava, squillavan le ruote,

correndo i due corsieri. Lieto era il fortissimo Cigno,

perché sperava il figlio possente di Giove e l'auriga

uccidere col bronzo, vestirsi dell'armi sue belle.

Ma non l'udí Febo Apollo, mentr'egli pregava: ché invece

accrebbe contro lui la forza del figlio di Giove.

E tutto quanto il bosco d'Apollo Pegàso e l'altare

riscintillava per l'armi del Nume tremendo e di Cigno,

dagli occhi loro un fuoco fulgeva. Qual mai dei mortali

l'ardire avrebbe avuto di farsi a lui contro, se togli

Ercole, e il fido suo scudiero Iolào? Ma ben grande

era di quell'eroe la forza, ma invitte le braccia

sopra le membra massicce sporgevan dagli òmeri fuori.

Al suo possente auriga, cosí disse allora, a Iolao:

«Iolào, campione a me diletto fra gli uomini tutti,

molto di certo peccò contro i Numi signori d'Olimpo,

Anfitrïóne, quel dí che a Tebe dal fulgido serto

venne, che avea Tirinto lasciata, la solida rocca,

poscia ch'Elettrïóne, pei bovi cornigeri, uccise.

Lieti lo accolsero quelli, gli diedero quanto era d'uopo,

quanto a un fuggiasco offrire si deve, e gli resero onore.

E lieto egli vivea con Alcmena sua sposa, dal vago

malleolo. E a luce noi, dopo un breve trascorrere d'anni,

tuo padre ed io venimmo, che d'indole pari e di senno

non eravamo punto: ché il senno a lui tolse il Croníde,

sicché, la casa sua lasciata ed i suoi genitori,

partí, ché volle un uomo ribaldo onorare, Euristèo.

Lo sciagurato poi dové farne gran pianto, e pentirsi

del fallo suo; ma piú revocarlo, possibil non era.

Gravi travagli a me un Démone invece prescrisse.

O mio caro, su via, stringi or tu le purpuree briglie

dei rapidi corsieri, moltiplica in seno l'ardire,

il carro e dei veloci corsieri la forza diritto

avventa, e non temere di Marte omicida il frastuono,

che con acute grida va or furïando pel bosco

sacro d'Apollo Febo, del Dio che lontano saetta.

Sazio dovrà dichiararsi, per quanto sia forte, di guerra».

E questo a lui Iolao, rispose, l'eroe senza pecca:

«O caro, assai, di certo degli uomini il padre e dei Numi,

assai l'Enosigèo t'onora, che vago è di tori,

che l'alte mura e la rocca di Tebe possiede e protegge:

tale un mortale, cosí gigante, cosí valoroso,

sotto le mani tue conducon, ché gloria tu n'abbia.

Su' dunque, indossa l'armi di guerra, ché, senza indugiare,

l'uno su l'altro i carri lanciando, di Marte ed il nostro,

si pugni; ei non potrà spaventare il figliuolo di Giove

senza paura, né d'Ificle il figlio; ma penso che invece

egli fuggire dovrà dai figli del figlio d'Alcéo

che sono presso a lui, che cupidi sono di guerra,

cupidi della zuffa, che a lor grata è piú del banchetto».

Disse cosí. Sorrise, ché in cuore godeva, la forza

d'Ercole: tanto a lui tornarono grati quei detti.

E gli rispose, e a lui parlò queste alate parole:

«Iolào, saldo campione nutrito da Giove, non lungi

è l'aspra pugna, e tu, come fosti sin qui valoroso,

Aríone, il gran cavallo dai ceruli crini, anche adesso

in giro spingi, e piú che puoi, dammi aiuto alla pugna».

E, cosí detto, alle gambe d'attorno legò gli schinieri

di lucido oricalco, d'Efèsto bellissimo dono,.Esiodo Lo scudo di Ercole

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i fianchi cinse poi tutto in giro col bel corsaletto

istorïato, foggiato nell'oro: l'aveva donato

a lui Pàllade Atèna, la figlia di Giove, quand'egli

dovea la prima volta provarsi nei duri cimenti.

Poi quel tremendo, il ferro che tiene lontana la morte,

sugli omeri adattò: fissandolo al petto, il turcasso

concavo, dietro le spalle gittò: dentro v'erano molte

frecce, di muta morte ministre, di brividi orrendi.

In punta avevano esse la morte, stillavano pianto,

erano levigate nel mezzo, lunghissime, e dietro

velate con le piume dell'aquila fulvida negra.

La lancia indi impugnò, con la punta di lucido bronzo,

orrida, sopra il capo gagliardo una gàlea pose,

istorïata di fregi, infrangibile, adatta alle tempie:

d'Ercole il capo questa schermiva, del fig lio di Giove.

Poscia lo scudo, vario d'agèmine, prese; né alcuno

franto lo avrebbe, ammaccato di colpi: stupore a vederlo.

Ché tutto quanto in giro, di smalto e di candido avorio

riscintillava, e d'oro fulgea tutto quanto e d'elettro.

Un drago, poi dal centro spirava indicibile orrore,

che con pupille oblique fissava, e brillava di fuoco;

e nella bocca una fila correva di candide zanne,

terribili, funeste. Sovr'essa l'orribil sua fronte,

Contesa svolazzava, che gli uomini a guerra schierava,

funerëa, che il cuore, che il senno rapiva ai mortali

che faccia a faccia, contro pugnassero al figlio di Giove.

Erano ancora qui figurati l'Attacco e la Fuga,

la Strage quivi ardea, lo Strepito ardea, l'Omicidio,

vi furïava il Tumulto, la Rissa, la Parca funesta,

che un uomo or or ferito stringeva, uno illeso, ed un altro

morto, e lo trascinava, ghermitolo al piè, tra la zuffa.

L'anime loro, poi, s'immergono sotto la terra,

entro nell'Ade, l'ossa d'intorno alla madida pelle

si putrefanno sul negro terreno alla vampa di Sirio.

Bruna di sangue umano sugli òmeri aveva una veste,

terribilmente guatava, gridava, strillava a gran voce.

E, piú che non si dica, terribili, teste di serpi

v'erano, dodici; e in seno spiravan terrore ai mortali

che a faccia a faccia contro movessero al figlio di Giove.

Alto suonava dei denti lo strepito, quando pugnava

d'Anfitrïóne il figlio, mandavano fiamme le insegne.

Eran varïegati di punti gli orribili draghi:

azzurri sopra il dorso, ma negre parean le mascelle.

E branchi c'eran poi di cinghiali selvaggi e leoni,

che gli uni sopra gli altri gittavano gli occhi furenti,

cupidi, e andavan fitte le loro falangi; né questi

tremavano, né quelli: sul collo, irti i crini ad entrambi.

Ché già spento un immane leone giaceva, ed intorno,

privi di vita due cinghiali, e di sotto stillava

a terra il negro sangue. Cosí, le cervici stroncate,

giacevan dove uccisi li avevan gli orrendi leoni.

E piú crescea di zuffe la furia e l'émpito, in questi

e in quelli, apri selvaggi, leoni dagli occhi di fuoco.

C'era la zuffa poi dei Lapíti maestri di lancia,

col re Cenèo, Drianta, Pirítoo, Pròloco, Oplèo,

Falèro, Esòdio, Mopso d'Ampíco figliuol, Titarèsio

prole di Marte, Tesèo figliuolo d'Egèo, pari ai Numi:

essi d'argento, l'armi che ai fianchi cingevano, d'oro.

Eran dall'a ltra parte raccolti i Centauri, alla pugna,

intorno al gran Petraio, ad +sbolo vate d'augelli,

ad Arto, a Urèo dai negri capelli, a Mimante, a Driàlo,

ai due Peucídi, a Perimedèo: tutti quanti foggiati.Esiodo Lo scudo di Ercole

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eran d'argento, e abeti stringevano d'oro fulgente.

E, fatto impeto insieme, cosí come fossero vivi,

con l'aste e con gli abeti da presso veniano alla pugna.

Ed eran qui di Marte terribile i ratti corsieri,

d'oro; e lo stesso Marte funesto s'ergea tutto in arme,

che un giavellotto in pugno stringeva, eccitava le turbe,

di sangue tutto brutto, che agli uomini, ritto sul carro,

togliea la vita; e presso gli stavan Terrore e Sgomento,

ch'erano tutti brama d'irrompere in mezzo alla pugna.

La Tritogenia figlia di Giove, la vaga di prede,

v'era, e sembrava come volesse apprestare la pugna:

ché l'asta e l'elmo d'oro dal triplice ciuffo reggendo,

l'ègida su le spalle, moveva alla cruda battaglia.

Ed una danza v'era di Súperi, sacra: nel mezzo,

soavemente il figlio di Lato e di Giove cantava

sopra la cetera d'oro. Dei Numi la sede, l'Olimpo

v'era, e una piazza, e attorno, corona di Numi infinita

a contemplare una gara. Le Muse Pïèridi, al canto

davan principio, e voci di femmina avevano, acute.

Di buon ormeggio un porto, nel pelago senza riparo

effigïato v'era, di stagno purissimo, tondo,

e che ondeggiasse pareva. Nel mezzo, parecchi delfini

guizzavano qua e là correndo, alla caccia dei pesci.

E nuotatori v'eran: due d'essi sbuffavano l'acqua;

e innanzi a loro, i pesci fuggivan, foggiati nel bronzo.

Un pescatore sedea su la spiaggia, e spiava, e una rete

da pesci aveva in mano, parea che volesse gittarla.

Di Dànae chioma bella poi v'era, scolpito nell'oro,

il figlio Pèrseo, e ai piedi cingeva gli alati calzari.

E non toccava coi pie' lo scudo, né pur n'era lungi:

gran meraviglia a vederlo, ché punto non v'era poggiato:

con le sue mani cosí lo costrusse l'insigne Ambidestro.

Dal bàlteo, su le spalle pendeva una spada di bronzo

dai negri fregi: a volo movea, come vanno i pensieri,

l'eroe. Tutta la schiena copria della Gòrgone il capo,

del mostro orrido; e tutta, stupore a veder, la cingeva

una bisaccia d'argento, svolavano lucide frange

d'oro; e, tremendo, il casco d'Averno stringeva al signore

la fronte; e lo cingeva notturna caligine fosca.

Ed il figliuol di Dànae, com'uomo che abbrivida e fugge,

si distendeva al corso. Si precipitavan su lui,

insazïabili quanto nessuno può dir, le Gorgòni,

bramose di ghermirlo. Squillava dal pallido ferro,

sottessi i passi loro, lo scudo con alto fracasso,

tinnulo acuto; e sopra la cintola a ognuna di loro

si svincolavano due dragoni, inarcando le teste.

E lingueggiavano entrambi, nell'ira aguzzavano i denti,

terribilmente guatando. Sovresse le orrende cervici

delle Gorgòni, orrore torcevasi immane. - Al disopra,

uomini, d'armi guerriere coperti, pugnavano: questi

che dalla strage schermo facevano ai proprî parenti,

alla città: quegli altri tentavan di metterla a sacco.

Molti giacevano: i piú, capaci tuttor di pugnare,

pugnavano; e sovresse le torri di bronzo, le donne

si laceravan le gote, levavano acute le grida,

simili a donne vive: ch'Efesto le aveva scolpite.

E gli uomini d'età, che avea già ghermiti vecchiaia,

stavano fuor dalla porta raccolti, ed alzavan le mani

verso i Beati Celesti, temendo pei loro figliuoli.

Ed alla pugna questi badavano intanto. E le Parche

livide, dietro ad essi, dai candidi denti stridendo,

torve, terribili, tutte coperte di sangue, implacate,.Esiodo Lo scudo di Ercole

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rissa d'intorno ai caduti facevano, cupide tutte

di bere il negro sangue. E quei che ghermissero prima

già spento, oppur caduto ferito di fresco, su quello

l'immani unghie una d'esse gittava, e lo spirito all'Ade,

al Tartaro cruento scendeva. E quand'eran poi sazie

di sangue umano, dietro di sé lo gittavano, e ancora,

novellamente, correndo, moveano alla strage, al tumulto.

Cloto e Lachèsi innanzi movevano a tutte. Piú fiacca

+tropo, e di statura piú bassa, ma d'anni piú grave

era di tutte l'altre, ché prima venuta era al giorno.

Tutte pugnavano a un uomo d'intorno una zuffa crudele,

e l'una contro l'altra volgevano gli occhi furenti,

l'unghie provavano l'una su l'altra, e le mani rapaci.

E presso a loro stava la querula Ambascia odïosa,

pallida, magra, cascante di fame, le gambe stecchite,

e l'unghie lunghe lunghe sporgean dalle dita: colava

dalle narici moccio, cadevano giú dalle guance

stille di sangue; ed essa, con grande stridore di denti,

stava, e sugli òmeri suoi si addensava la polvere fitta,

molle di pianto. - E presso, sorgeva una rocca turrita,

da sette porte d'oro difesa, connesse ben salde

dagli architravi. E dentro, le genti, in carole e in festini,

si sollazzavano. Alcuni, in un carro di rapide ruote,

guidavano allo sposo la sposa. Il sonoro imeneo

volava: in man le ancelle reggevan le fiaccole accese,

ed il fulgore lontano volava. Movevano innanzi

esse, di gioventú fiorenti: seguivano a schiere

i danzatori. Quelle, dai teneri labbri, al concento

delle sampogne acute levavano il canto, ed intorno

si rifrangeva l'eco. Guidavano al suon delle cetre

quelli l'amabile danza. - Poi giovani, altrove, in tripudio

al suon del flauto, questi godevan di balli e di canti,

quelli ridevano; e avanti movevano, ognuno seguendo

un suonator di flauto; e danze, piaceri, festini

empievan la città tutta quanta. - Dinanzi alla rocca,

genti ai cavalli in groppa correvano. - Intenti all'aratro

scalzavano i bifolchi, succinte le vesti, la terra

divina. E c'era un campo di biade, profondo; ed alcuni

con gli affilati falcetti mietevano i calami lunghi

gravi di spighe, onde poi si frange di Dèmetra il dono;

altri in covoni poi le stringevan, battevano l'aia.

E chi pei gran vigneti, dei vendemmiatori, alle ceste

grappoli bianchi e neri portava, di pampani gravi

tutti, e d'argentei viticci, chi colmi portava i canestri.

Ed una vigna d'oro quivi era, d'Efèsto lo scaltro

opera egregia; e scoteva le foglie sui pali d'argento,

carica tutta quanta di grappoli; e i grappoli, neri.

E chi pigiava, e chi beveva. - Coi pugni, alla lotta,

si misuravano altri. - Correvano dietro alla lepre

i cacciatori, e i cani dai denti crudeli dinanzi:

questi ghermirle, quelle fuggire anelavano. - E presso

avean cavalïeri contesa fatica e travaglio

per una gara: stavan sui solidi carri, gli aurighi,

lente lasciando le briglie, sferzando i veloci cavalli;

e con gran romba i carri massicci volavano, i mozzi

stridevano alto; e mai non cessava la loro fatica:

ché la vittoria a nessuno rideva, era incerta la gara.

E nella lizza era esposto il premio d'un tripode grande,

opra d'Efesto, l'artefice scaltro, foggiato nell'oro. -

Correva presso all'orlo l'Ocèano, pareva rigonfio,

e tutto quanto cingeva lo scudo scolpito. E su quello,

cigni per l'aria, con alto clamore volavano, a sommo.Esiodo Lo scudo di Ercole

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altri nuotavan dell'acque, d'intorno scherzavano pesci.

Era una meraviglia vederlo, sia pure per Giove

sire del tuono, pel cui comando lo scudo massiccio

grande, manevole, Efèsto costrusse. Il figliuolo di Giove

lo palleggiava con mano gagliarda.

Balzò sopra il carro,

che folgore sembrò lanciata dal padre tonante,

con salto agile; e accanto l'auriga gagliardo Iolào

a lui balzò, reggendo le briglie del carro ricurvo.

E venne presso a loro la Diva occhicerula Atèna,

infuse in essi fede, con queste veloci parole:

«O di Lincèo, l'eroe glorïoso progenie, salute.

Giove che impera sui Numi beati, gran gloria v'accorda,

che morte a Cigno diate, che l'armi sue belle indossiate.

E un'altra cosa, o prode fra tutti i mortali, ti dico:

allor che della vita sua dolce avrai Cigno privato,

lascialo, lascia l'armi sue belle ove cadde; e tu fissa

Marte omicida, mentre s'avanza, ove ignudo lo vegga,

sotto lo scudo ornato: qui vibra l'aguzzo tuo bronzo,

e indietro fatti, poi, ché fato non è che tu possa

predare né i cavalli del Nume, né l'armi sue belle.

Poi ch'ebbe detto cosí, sul cocchio la Dea fra le Dive,

che la vittoria e la gloria reggea nelle mani immortali,

balzò con un gran lancio. Iolao generato da Giove

die', con un grido orrendo, l'aíre ai corsieri; e a quell'urlo,

trassero, empiendo il piano di polvere, il cocchio veloce:

ché furia in essi infuse la Diva occhicerula Atèna,

che l'ègida scoteva: rombava dintorno la terra.

E a un tempo anche moveano, parevano fuoco o procella,

Cigno, l'equestre signore, con Marte mai sazio di pugne.

E, a fronte a fronte gli uni degli altri, d'entrambi i cavalli

nitriti alti levarono, e l'eco s'effuse d'intorno.

Ercole invitto disse fra loro le prime parole:

«Perché, stolido Cigno, spingete i veloci cavalli

contro di noi, cosí sperti di pene e travagli? Su via,

fatti in disparte col carro tuo ben levigato, il cammino

lasciami libero, cedi. Io sono diretto a Trachíine,

presso Ceíce sovrano. Ché questi, col senno e la forza,

regna in Trachíne, bene lo sai da te stesso: ché sposa

hai la sua figlia, tu, Temistònoe dai ceruli cigli.

O stolido, se mai dovessimo a pugna venire,

neppur Marte da te potrà tener lungi la morte.

Un'altra volta già, ti dico, dové fare prova

della mia lancia, quando, nei pressi di Pilo sabbiosa,

a fronte egli mi stette, per brama implacata di pugna.

Tre volte egli toccò la terra, tre volte colpito

dalla mia lancia, e forato lo scudo: la quarta, spingendo

di tutta forza, immersi nel femore il cuspide, ruppi

di gran squarcio le carni. Piombò nella palvere prono.

E stette quivi, e segno d'obbrobrio restò pei Celesti,

ché sotto le mie mani lasciò le sue spoglie cruente».

Disse cosí. Ma Cigno dall'asta di frassino, ligio

ai detti suoi non fu, rattenere non volle i corsieri;

e rimbombò, mentr'essi movevano, l'ampia terra.

Come allorché d'un monte gigante dal vertice estremo

balzano rupi giú, strapiombano l'una su l'altra,

e assai querce d'eccelso fogliame si spezzano, e pini,

e pioppi dall'eccelse radici, quando esse dall'alto

rotano impetuose, sinché non pervengono al piano:

cosí, con alte grida, piombarono l'uno su l'altro.

E tutta la città di Mirmídone, e l'inclita Iolco,

ed Arne, con Antèa l'erbosa, o con Elica, un'eco.Esiodo Lo scudo di Ercole

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lunga a quel grido mandò. Piombarono l'uno su l'altro

con ululo infinito. Tuonò fieramente il sagace

figlio di Crono, e versò dal cielo sanguigna rugiada,

per inviare un segno di guerra al magnanimo figlio.

Come per valli alpestri selvose, terribile un apro,

con le sporgenti zanne compare, anelando la pugna,

piantato obliquamente: la bocca digrigna, la spuma

gocciola giú, le pupille somigliano a fuoco che arda,

irti sul dorso e su la criniera si drizzano i peli:

simile a questo, il figlio di Giove discese dal carro.

Erano i dí che la bruna canora cicala, sul ramo

tenero verde, a cantare comincia l'Estate ai mortali,

che solo ha per bevanda, per cibo, la molle rugiada,

e la sua voce effonde dall'alba, sinché dura il giorno,

nell'afa esosa, quando piú Sirio prosciuga la pelle:

i dí quando le reste compaion sui chicchi del miglio,

ch'è seminato l'està, quando invàiano i grappoli acerbi,

doni di Bromio che gioie comparte ai mortali e tormenti.

Pugnarono in quei dí, della pugna fu grande il fracasso.

E come due leoni, d'intorno ad un cervo abbattuto,

l'un contro l'altro, furore spirando, si avventano, e orrendo

suona il ruggito loro, lo strepito suona dei denti:

come avvoltoi dall'unghie rapaci, dal becco ricurvo

che sopra un'alta rupe si batton con fiero clangore,

per una capra alpestre, per una selvatica pingue

cervia, che un giovinetto, vibrando una freccia dall'arco,

trafisse; ed egli poi, dei luoghi inesperto, lontano

andò vagando: quelli la videro súbito, e intorno

impetuosamente le corsero, ad aspro conflitto:

cosí quelli, gridando, balzarono l'uno su l'altro.

E qui, Cigno, bramoso d'uccidere il figlio di Giove

onnipossente, vibrò sul suo scudo la lancia di bronzo;

né il bronzo si spezzò: ché schermo fe' l'opra del Nume.

Ercole, invece, il figlio possente d'Anfitrïóne,

gagliardamente immerse fra l'elmo e lo scudo la lancia,

nel collo, ov'esso ignudo pareva, al disotto del mento.

Il frassino omicida recise l'un tèndine e l'altro,

ché grande era la forza del colpo. E piombò come quercia

piomba, o scoscesa rupe, colpita dal folgor di Giove.

Cosí piombò: su lui suonarono l'armi di bronzo.

E allora lo lasciò di Giove l'impavido figlio,

ed aspettò guardingo l'arrivo di Marte omicida,

fissandolo con occhi terribili, al par d'un leone

che in una preda s'imbatte, la pelle con l'unghie possenti

cupidamente gli fende, ne sazia l'ingorda sua brama,

e, sfavillando tremendo negli occhi, le spalle ed i fianchi

coi pié gli scava, e sferza la coda, e nessuno che veda

farglisi contro ardisce, combatter con lui faccia a faccia.

D'Anfitrïóne il figlio mai sazio di zuffe, di fronte

stette a Marte cosí, crescendogli in cuore il coraggio,

impetuoso; e quegli, crucciato, si fece a lui presso;

e con orrende grida, piombarono l'uno su l'altro.

Come allorquando una rupe si stacca da un vertice eccelso,

e con immensi balzi giú rotola, e irrompe furente

con gran fragore; ed ecco, si oppone al suo corso un gran poggio:

quivi essa cozza; e il poggio l'arresta: con simile romba

balzò, gridando, Marte, flagello dei carri. Ma quello

súbito contro gli stette. E Atèna, figliuola di Giove,

contro si fece a Marte, schermita dall'égida fosca,

e bieco lo guardò, gli volse cosí la parola:

«Marte, trattieni il cuore furente e l'invitto tuo braccio:

perché fato non è che tu Ercole stermini, il figlio.Esiodo Lo scudo di Ercole

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dal temerario cuore di Giove, e che l'armi ne indossi.

Via, dalla zuffa desisti, né starmi di contro a battaglia».

Cosí disse; né il cuore superbo di Marte convinse;

ma con grandi urli, l'armi, che fuoco pareano, vibrando,

rapidamente balzò sopra Ercole forte, anelando

di dargli morte. E a furia - tant'ira l'ardeva pel figlio

spento - dal grande scudo vibrò la sua lancia di bronzo.

Ma si protese dal carro la Diva dagli occhi azzurrini,

e volse altrove il colpo dell'asta. Ed acuto cordoglio

invase Marte. E fuori traendo l'aguzza sua spada,

contro Ercole balzò, dal cuore magnanimo. E il figlio

d'Anfitrïóne, che mai non fu sazio dell'orrida pugna,

sotto lo scudo bello, la coscia, ove ignuda appariva,

gagliardamente trafisse, le carni di squarcio profondo

aprí, colpendo, il Nume rovescio mandò per le terre.

Spinsero súbito presso Sgomento e Terrore il veloce

carro e i cavalli, il Dio sollevaron da terra, sul carro

lo posero, di fregi molteplici ornato, le sferze

vibraron sui cavalli, tornarono ai picchi d'Olimpo.

Ed il figliuolo d'Alcmèna, con Iolào coperto di gloria,

poscia che l'armi belle dagli omeri tolser di Cigno,

partirono; e sul carro veloce pervennero presto

alla città di Trechíne. E Atèna dagli occhi azzurrini

novellamente tornò del padre alla casa, in Olimpo.

E Cice a Cigno diede sepolcro, col popolo immenso

che, intorno alla città dell'illustre sovrano, abitava

Ante, con la città dei Mirmídoni insigne, e Iaòlco

Elide ed Arne. A onorare Ceíce diletto ai Celesti,

popolo molto s'accolse. Ma poscia invisibili rese

tumulo e tomba, gonfio di piogge invernali, l'Anàuro.

Febo volle cosí, perché Cigno, chiunque recasse

sacre ecatombi a Pito, tendeva l'insidia a predarle.